sabato 30 dicembre 2017

Il sepolcro vuoto: per Bruno Forte è una “leggenda”


Dai tempi apostolici, come attesta il discorso di Paolo all’Areopago, non si è mai smesso di dubitare della veridicità della risurrezione di Gesù Cristo. Anzi, egli non era ancora asceso al cielo e, come il vangelo di Matteo annota: “Quidam autem dubitaverunt!” (alcuni però avevano dubitato: Mt 28,17).
Alcuni anni fa a Gerusalemme ci fu sul tema un dibattito teologico: il teologo cattolico ricorse alla ‘leggenda eziologica’ per spiegare l’avvenimento, e quello ortodosso reagì al punto da abbandonare l’incontro; così sulla risurrezione inciampò anche il dialogo ecumenico cattolico-ortodosso, proprio nella Città Santa. Ai nostri giorni, il dubbio sulle ‘prove’ della risurrezione è stato alimentato proprio da taluni esegeti e cristologi, contro tutta la tradizione della Chiesa, quella tradizione che il Concilio Vaticano II nella Dei Verbum, descrive come ciò che rende possibile l’accesso al vero senso del testo della Scrittura. Si è adottata la perifrasi ‘evento pasquale’ e si è immaginato un Cristo pre-pasquale in contraddizione con quello post-pasquale. Forse il popolo cristiano non è stato molto toccato da ciò, malgrado non pochi preti e docenti di seminario abbiano attinto ampiamente, come a materia canonizzata, ai vari Raymond E. Brown, Pierre Benoit e Marie-Emile Boismard. Qualche direttore di ufficio catechistico ha anche invitato i catechisti e gli insegnanti di religione alla prudenza: a non dire che Cristo è risorto, ma che i discepoli hanno detto che egli è risorto!
Anche in Italia non sono mancati i divulgatori di questa teologia debole e derivativa.
Per esempio, in uno dei suoi studi, Bruno Forte comincia con l’attribuire scarso valore storico ai racconti del sepolcro vuoto, ritenendo questo argomento ambiguo e frutto del lavoro redazionale degli evangelisti; quindi, sulla scia di autori come G. Schille, L. Schenke, E. Schillebeeckx, lo considera appunto una “leggenda eziologica”, ovvero un artificio per suffragare il culto che i giudeo-cristiani svolgevano al luogo della sepoltura di Gesù.
Inoltre, il dato della tomba vuota viene ritenuto ambiguo, perché suscettibile di svariate interpretazioni e perciò incapace di fondare la fede nella risurrezione. Per cui, al contrario, secondo un tipico procedimento bultmanniano, sarebbe la fede ad interpretare il sepolcro vuoto, il quale non aggiungerebbe né toglierebbe nulla all’esperienza degli apostoli che confessarono la risurrezione e la glorificazione di Cristo, cioè la sua signoria sulla morte (cfr. B. Forte, Gesù di Nazareth storia di Dio, Dio della storia, Cinisello B. 1994, 7ed., p 103).
Si dovrebbe dedurre di conseguenza, che, qualora la risurrezione fosse storicamente avvenuta, la fede sarebbe superflua. Inoltre, riferendosi a Mc 16,1-8, Forte ritiene “inverosimile” che le donne si siano recate al sepolcro per “ungere un cadavere a tanta distanza dalla morte” (Ibid., p 103, n 31). Il sepolcro vuoto è all’origine di una suggestione mitica dei discepoli, ereditata dai cristiani (cfr. Ibid., p 103, n 35). Dunque, il sepolcro vuoto, come altri particolari evangelici riguardanti la risurrezione, sarebbe una ‘prova’ fabbricata dalla comunità (V. Messori, Dicono che è risorto, Un’indagine sul Sepolcro vuoto, Torino 2000, p 86).
Che dire? Nelle Vite dei Profeti, un documento del I secolo, è attestato che i capi religiosi giudei usavano recarsi a pregare presso i sepolcri intorno a Gerusalemme, molti dei quali sono stati messi in luce dagli archeologi.
Chi conosce il giudaismo sa che la mishna e il talmud prescrivevano che i sepolcri rimanessero aperti per tre giorni dal momento della sepoltura di un defunto, onde permettere i riti di pietà come l’unzione, che, infatti, veniva ripetuta sui cadaveri già avvolti nei teli; però, in prossimità delle grandi festività giudaiche come la Pasqua, i sepolcri venivano chiusi temporaneamente. Quindi, anche i discepoli di Gesù si apprestavano ad osservare tali prescrizioni (cfr. Mc 16,6), se non fosse intervenuta la risurrezione.
Infatti la sepoltura del suo corpo era stata fatta in tutta fretta a motivo della parasceve pasquale, pertanto bisognava ritornare a completare l’operazione. Tutto questo avvalora ulteriormente l’importanza del sepolcro vuoto. Ma Bruno Forte lo ignora.
In realtà, come Vittorio Messori ha osservato, sussiste “in molti biblisti contemporanei, pur di formazione e convinzioni cristiane, la persuasione sociologica che l’uomo ‘moderno’ non potrebbe accettare l’idea di una risurrezione corporale…”(Ibid., p 87): per loro quel che conta è ‘l’esperienza’ soggettiva degli apostoli e non l’avvenimento storico della risurrezione.
Allora, ci si dovrebbe chiedere: se il sepolcro vuoto non avesse avuto alcuna importanza, perché l’angelo avrebbe invitato a vedere il luogo dove era stato deposto il Signore? (cfr. Mc 16, 5 s). Se lo fece, non fu perché le donne non ne conoscessero l’ubicazione, ma perché constatassero di persona lo stato dei teli funerari, come meglio e con sguardo d’aquila farà Giovanni, sì che ‘vide e credette’(cfr. Gv 20,8).
Il sepolcro vuoto è ‘prova’ della risurrezione perché in esso le bende e il sudario erano come svuotati, anzi, ad osservarli attentamente, davano la sensazione che non fosse trascorso molto tempo. Così, il sepolcro vuoto appartiene al segno di Giona promesso dal Maestro.
Come ben ricorda Messori, l’invito dell’angelo a visitare la tomba vuota è del tutto collegato ai segni del mistero che vi si era appena compiuto (cfr. Ibid., p 143). L’angelo rimosse la pietra dall’ingresso del sepolcro dopo che Cristo era risorto; così la fede nasce dalla risurrezione e non il contrario, a meno che non si ritenga che anche l’angelo sia un genere letterario.
Dunque, nel sepolcro vuoto non v’è ambiguità, anzi vi sono i segni che provano la risurrezione; più che da interpretare c’è da vedere e credere; quindi il sepolcro vuoto “aggiunge” molto – e come! – all’esperienza apostolica della risurrezione, altrimenti, secondo san Paolo, non sussisterebbe la fede (cfr. 1Cor 15,14). È proprio il contrario di ciò che sostiene Bruno Forte.
Ora, il sepolcro vuoto è capace di fondare la fede nella risurrezione; non è argomento con “qualche contenuto storico”; anzi, proprio le “incongruenze storiche” stanno a dimostrare che il cosiddetto “lavoro redazionale dell’evangelista” non era teso ad annullarle ma a rispettarle, in quanto collegate ad un fatto storicamente avvenuto. La Chiesa di certo non le ha attenuate nella proclamazione delle Scritture; pertanto, si deve affermare che ancora oggi “La struttura della parola è sufficientemente univoca” (J. Ratzinger, Che cos’è la teologia? in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B., 2004, p 32).
A questo punto, il sepolcro vuoto si dimostra come un fatto degno d’essere raccontato e un argomento che prova la risurrezione del Signore: perciò dalle origini ad oggi ha motivato il culto a Gerusalemme e il pellegrinaggio da tutto il mondo. Il sepolcro trovato vuoto non si può spiegare naturalmente, perché appartiene ai fatti straordinari provati storicamente: cioè che Gesù era stato sepolto in una tomba nuova e che fu visto (oftê), risorto ‘in carne ed ossa’ (Lc 24,39), da Cefa e da molte altre persone (si veda la lista in 1Cor 15,5-7). Se la tomba non fosse stata vuota, gli apostoli non avrebbero potuto predicare in Gerusalemme; nemmeno ai Giudei fu possibile negarlo, sebbene accusassero gli apostoli d’aver trafugato il corpo (cfr. Mt 28,11-15). Se la tomba non era vuota, e il corpo di Gesù continuava a giacervi, subendo la decomposizione, così che tutt’oggi avremmo potuto trovarvi i suoi resti, le sue ossa, Gesù non è risorto.
La tomba vuota non è la condizione sufficiente per la fede nella risurrezione, ma è la condizione necessaria: quello che confessiamo dicendo ch’egli è risorto, precisamente che il suo corpo non è rimasto morto. Diversamente ci sarebbe soltanto la sopravvivenza dell’anima, e l’anima di tutti è sempre, per definizione, immortale (per natura sua, come insegna l’Aquinate, o per speciale decreto divino, come dice Scoto).
Oppure, come vorrebbero appunto i demitizzatori vari, idealisti e liberal protestanti, si tratterebbe meramente di una sopravvivenza ideale, morale, che non aggiunge niente a quella di qualsiasi personaggio venerato o persona amata. Inutile, parlare della convinzione dei discepoli ch’egli sia sempre vivo, se poi di fatto non lo sia. E allora, secondo san Paolo, saremmo i più miserabili degli uomini (cfr. 1Cor 15,19).
Confessare Gesù risorto vuol dire che la tomba è realmente vuota, ch’egli vive in anima e corpo, che il suo corpo non è rimasto nella tomba e non ha subito decomposizione, ecc. Dire che questo non importa vuol dire non credere nella risurrezione. Ad onta del ‘pensiero debole’ diffuso tra taluni teologi ed ecclesiastici, la liturgia, come nel communicantes del canone romano, afferma la risurrezione di Cristo “nel suo vero corpo”.
In verità, “Il messaggio della risurrezione continua ad essere accompagnato e contrastato dal dubbio, anche se alla fine si rivela essere un messaggio vincente capace di superare tutti i dubbi” (J. Ratzinger, Dio e il mondo, Cinisello B., 2001, p 306), ad onta del ‘pensiero debole’ militante tra teologi ed ecclesiastici spiritualisti. Surrexit Dominus vere!

(Fonte: Nicola Bux, La Terra Santa, Anno LXXX Luglio-Agosto 2004, p 9-11. 




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