lunedì 31 ottobre 2016

«Lutero? Un figlio di Machiavelli»

Una chiave per comprendere gli effetti della Riforma luterana è l'analisi che ne fa il filosofo e teologo domenicano Tommaso Campanella (1568-1639), che nei suoi studi si impegna a comprendere a fondo cosa sia successo con Martin Lutero e la Riforma.
Occorre tener presente che Tommaso Campanella, conosciuto e stimato nel mondo protestante tedesco, ha vissuto da spettatore inerme lo scoppio della terribile guerra dei Trent'anni, e quindi non può non meditare su cosa il luteranesimo abbia significato anche politicamente, lui che aveva sperato in una renovatio mundi religiosa e politica. La sua Epistola antilutherana, così come il Dialogo politico ed altri scritti, si collocano dunque in questo contesto: l'Europa incendiata da Lutero si è divisa, ma non sono arrivati i tempi decisivi, né quelli dell'Anticristo, né quelli di un "nuova era" segnata dal trionfo del Bene.
Ebbene, qual è, in estrema sintesi, la visione che Campanella ci dà di Lutero? Egli non ha dubbi: Lutero è un figlio di Machiavelli. E' l'uomo che, machiavellicamente, ha saputo fomentare e cavalcare il machiavellismo dei prìncipi tedeschi. Infatti su chi ha fatto leva il monaco agostiniano? Sui prìncipi tedeschi, desiderosi da una parte di emanciparsi dall'Imperatore, dall'altra di prendere nelle proprie mani, oltre al potere temporale, il potere spirituale, e, oltre ai beni dello Stato, anche monasteri, terre, ospedali, scuole e beni della Chiesa.
I prìncipi tedeschi, secondo Campanella, «hanno preso al volo l'occasione di separarsi da Roma per costituire una chiesa autonoma e dare così sfogo alle loro mire temporali». Loro, così come Lutero, hanno utilizzato strumentalmente un fatto vero, la crisi morale di molti uomini di Chiesa, non nell'intento di riformare i buoni costumi, di restaurare la Chiesa, ma di sostituirsi ad essa. Per Campanella dunque i prìncipi hanno utilizzato Lutero, per poter giustificare la loro brama di potere e l'incameramento dei beni ecclesiastici, mentre Lutero ha usato i prìncipi per vincere una battaglia altrimenti impossibile.
Ciò significa, in ultima analisi, che la Riforma non è stata affatto una vera riforma, perché non ha raddrizzato le storture morali, ma ha alterato la dottrina e la fede, e perché, in ultima analisi, ha avuto successo solo perché politicamente strumentalizzabile ad opera del potere secolare. Frutto e figlio di un'epoca di crisi, lungi dal rimediare ad essa, come i veri riformatori del passato (san Francesco, san Domenico...), Lutero ha peggiorato ed aggravato la crisi stessa, precipitando la Cristianità nella divisione e nella confusione. 
Il giudizio definitivo è presente nel Dialogo politico, in cui Lutero diventa un "falso profeta": "superbissimo" ed ambizioso, ha mentito, negando che san Pietro fosse mai stato a Roma, e profetizzando fatti che non si sarebbero mai realizzati (la rovina del papato e l'avvento dell'Anticristo); non ha dalla propria parte né miracoli, né testimoni credibili (la riforma si è risolta in varie chiese riformate divise al loro interno e piene di litigi); è stato incoerente sui dogmi formulando dottrine diverse nel tempo e riducendo la fede ad un fatto individuale che genera la rottura di ogni possibile unità; ha trasformato Dio in un tiranno e spogliato l'uomo della sua dignità, negandogli il libero arbitrio.
Inoltre, se Cristo ha "vinto" morendo sulla croce, generando dietro di sé testimoni credibili come gli apostoli, Lutero ha fatto l'esatto contrario: come Maometto, ha piantato la fede con la forza; come Machiavelli ha cercato l'appoggio dei prìncipi per sopperire alla sua mancanza di credibilità (si veda in particolare Gaetano Curra, Il falso profeta. Lutero negli scritti di Tommaso Campanella, Cosenza, 1989)
Oggi, diversi secoli dopo Campanella, non è difficile scorgere la veridicità di fondo della sua riflessione. Per Lutero, scrive Eugenio Ballabio, in Lutero e Nietzsche (Roma, 2005, p. 30), «il destinatario del nuovo verbo era in primo luogo la nobiltà germanica», a cui indirizzò numerose lettere personali e generiche, e il suo celebre appello Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca.
In un classico manuale di storia del pensiero politicoLe orgini del pensiero politico moderno (Il Mulino, Bologna, vol. II, p. 26), Quentin Skinner, dopo aver elencato tutti i prìncipi, i langravi, i principi-vescovi che sostennero Lutero, spesso dietro sua esplicita richiesta, mette a fuoco un concetto chiave: «Le premesse teologiche di Lutero non solo lo impegnarono ad attaccare i poteri giurisdizionali della Chiesa, ma anche a colmare il vuoto di potere che si era così creato, apprestando un'analoga difesa delle autorità secolari. Per prima cosa Lutero sanzionò un'estensione senza precedenti del raggio d'azione dei loro poteri». Conferendo ai principi il potere che aveva tolto al Papa.

(Fonte: Francesco Agnoli, La nuova bussola quotidiana, 16-10-2016)



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