mercoledì 3 novembre 2010

Una battuta entusiasmante che apre la corsa alle urne

L’improvvisa, ma non imprevedibile, uscita di Silvio Berlusconi (parlo dell’uomo, prima che del presidente del Consiglio, trattandosi di dichiarazioni relative a gusti e inclinazioni personali) arriva al culmine di una vicenda che ha drammatizzato la situazione politica in maniera spropositata rispetto alla sostanza dell’episodio. Nel crescendo oratorio, Berlusconi prima avvisa quanti lo ascoltano, e li rassicura: «Non leggete i giornali, vi imbrogliano, non c’è nulla di grave perché hanno male interpretato la mia disponibilità ad aiutare chi abbia bisogno, per una ragazzata com’è nel caso di cui tanto si parla.
Vedrete, finirà nel nulla, essendo una tempesta di carta». Al culmine di questa affermazione, la battuta fulminante, così spontanea da sottrarsi a ogni prudenza imposta al «politicamente corretto»: «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay».
Ma gli è scappata o l’ha fatto apposta? Io mi sono entusiasmato, e sono convinto che, nella battuta, vi siano insieme spontaneità e calcolo. Spontaneità perché quello che Berlusconi ha detto è vero, intendo vero per lui, come per mio padre e per tanti italiani che si sono formati prima della liberazione sessuale, cresciuta all’inverosimile se si pensa alla diversa percezione che si ha dell’omosessualità rispetto a venti o trent’anni fa. Lo stesso Berlusconi, candidamente, chiosa: «È quello che ci hanno insegnato i nostri genitori». Di più, è quello che ci dice la Chiesa, indicando i rapporti fra uomo e donna come base della famiglia e respingendo, senza condizioni, le proposte di legittimazione delle unioni gay.
Berlusconi è nato nel 1936, e sembra voler ribadire il primato della eterosessualità come condizione «naturale». Il dibattito è ancora aperto, ma l’omosessualità è stata per lungo tempo considerata trasgressione o devianza. Un’analoga posizione ha assunto recentemente Rocco Buttiglione parlando di sessualità rispettabile ma sbagliata, di «errore», ovvero di «peccato», arrivando a paragonare l’omosessualità all’adulterio. Nella dottrina cristiana ci siamo.
Berlusconi ha quindi espresso una posizione semplice, e soprattutto personale. Ma non è escluso che ci sia stata intenzione e che, in questo continuo sconfinamento tra questioni pubbliche e questioni private, abbia, con quella battuta, voluto aprire la campagna elettorale. In che senso? Molti hanno visto semplicemente l’atteggiamento omofobo, e hanno osservato che Berlusconi avrebbe commesso l’imprudenza di alienarsi le possibili simpatie del mondo omosessuale coltivato e blandito, persino più che a sinistra, dalla ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna. Troppo semplice. In realtà Berlusconi, forse inconsciamente ha indicato uno spartiacque, una scelta di campo per le (prossime) elezioni politiche, che egli afferma di non desiderare: il suo più probabile antagonista, infatti, è Nichi Vendola, paladino dell’orgoglio omosessuale, in maniera altrettanto naturale (anche se, fino ad oggi, più militante) quanto quella manifestata convintamente da Berlusconi con le sue dichiarazioni di orgoglio eterosessuale. Proviamo dunque a ribaltare la situazione senza privilegiare l’una o l’altra in nome dei diritti delle «minoranze» (?). Se Nichi Vendola avesse dichiarato: «Meglio essere appassionati di bei ragazzi che eterosessuali», chi si sarebbe stupito? D’altra parte Berlusconi parlava a un pubblico convenuto a una fiera del ciclo e del motociclo, con molte belle ragazze immagine. Perché dirlo «malato»? Visto l’argomento di cui parlano i giornali da una settimana, egli sta sul pezzo, manifesta la sua natura esuberante, continua a scherzare come quando, nello spirito di Amici miei, fa balenare al capo di gabinetto della Questura che Ruby possa essere la nipote di Mubarak. Puro Adolfo Celi, anche se è Berlusconi più affine all’inarrivabile conte Mascetti di Ugo Tognazzi (ma non ha perso tutto). D’altra parte egli è consapevole di essere come un fenomeno naturale, come un luogo di villeggiatura: da visitare, non da occupare. Come la Grotta Azzurra, come Taormina.
Così Ruby è passata, ha visto ed è andata via. Mentre, in altre situazioni, Elisabetta Tulliani si è insediata, ha occupato la sede vacante ed è rimasta con il fratello e con la famiglia presso il suo prescelto. Berlusconi, diventato libero, dopo la rivolta di Veronica, intende rimanerlo, e ha espresso la propria convinta posizione. Di chi contempla la bellezza femminile. È la posizione anche di Saffo. Mentre Pasolini preferiva i bei ragazzi. Ma la differenza è appunto tra «appassionarsi» ed «essere». La condizione gay impone una diversa visione del mondo che sconfina con l’ideologia. Berlusconi, cristiano, cristianissimo, esprime una visione pagana, di puro piacere, non ideologica. Difficile non condividere quel punto di vista. E se avesse detto: «Preferisco la carne al pesce?». Non diverso da: «Meglio essere appassionato di belle ragazze che gay». Il resto potrebbe essere il copione di una ribellione del compagno di Vendola che scrive a Repubblica dopo aver scoperto che il suo amato lo ha tradito. Scoppierebbe un Vendola-gate?
Allo stato quello che è accaduto in questo giorni, anzi, in questi mesi da Noemi in avanti, attiene alla sfera privata, come la frequentazione di giovani disposti a prostituirsi non ha in alcun modo riguardato il pensiero e l’impegno di Pierpaolo Pasolini. La differenza, rispetto al mondo omosessuale, è il clima di allegria, di divertimento, fin qui frainteso. La vicenda di Ruby, come oggi le dichiarazioni apparentemente scorrette hanno tutto l’aspetto di una burla, di un gioco. E Bersani e Di Pietro soffrono, per questa volta, di non essere fra i protagonisti di questa edizione di Amici miei. Niente di più, niente di tragico. Battute che Achille Campanile avrebbe apprezzato. Ma oggi abbiamo il triste Travaglio.

(Fonte: Vittorio Sgarbi, Il Giornale, 3 novembre 2010)

I tre inciampi della musica liturgica in dialogo con le culture

Io credo, ponderando da anni la questione, che si tenda a fare tre errori o inciampi quando si parla di come la musica si debba inculturare nel mondo di oggi. Sono errori probabilmente fatti in buona fede e sono ovviamente aperti alla discussione. Ma doipo anni di osservazioni e letture mi sembra proprio che almeno per questi tre punti bisognerebbe riflettere più attentamente.
Un primo errore comune è: inculturazione significa ricominciare da capo, significa distruggere la cultura liturgica (e musicale) di provenienza. Ora, non possiamo tacere senza essere poi ingiusti, che il cristianesimo si è sviluppato in determinati contesti culturali che hanno apportato anche tante cose buone e ancora in parte valide per la fruizione del messaggio stesso, anche nella liturgia e nella musica. Perché distruggere tutto? In effetti alcuni esempi veramente buoni di inculturazione della musica liturgica sono proprio la prova che la distruzione non serve a niente, quello che serve è la nuova creazione generata da quello che viene prima e che diviene parte, oserei dire genetica, di questa nuova creazione. Questo passato non è un ingombro, è un’opportunità. Ora, canto gregoriano e polifonia sono stati per secoli il repertorio liturgico della Chiesa cattolica. Possiamo tentare di andare oltre ma non per questo bisogna disprezzarli o considerarli come nemici della “nuova musica liturgica”. Dovrebbero esserne i genitori da rispettare ed amare, non ha senso vergognarsi. Da parte di taluni c’è una furia che oserei dire quasi rivoluzionaria di cominciare sempre tutto da un punto zero, il che mi sembra quanto meno imprudente. Quello che serve non è una rivoluzione, ma una evoluzione. Sempre cercare di fare meglio ma con la consapevolezza di poter vedere più lontano perchè ci vogliamo sedere sulle spalle dei giganti che ci hanno preceduto. Ricordiamo che l’istruzione del 1994 sulla Inculturazione nella Liturgia Romana si chiamava Varietates Legitimae, legittime differenze, variazioni, non distruzioni.
Un secondo errore comune è di tipo più culturale: si identifica come cultura di certe nazioni un determinato repertorio che in realtà è più la cultura creata dai mass media. Quante volte ho sentito cantare anche ai giovani le solite canzoni echeggianti modelli musicali provenienti dalla musica di consumo (che non ha niente di male in se stessa, è il contesto che è sbagliato). Ora, come già avvertiva il Cardinal Ratzinger nel suo libro “Introduzione allo Spirito della Liturgia”, non si può propriamente dire che questa musica sia musica popolare (nel senso espresso dalla Sacrosanctum Concilium al punto 119, espressione del genio di un popolo), in quanto è chiaramente il prodotto di alcune determinate strategie di mercato. Non si può neanche negare che la grande musica del passato non era popolare in senso stretto, essendo il frutto di strategie ecclesiastiche e politiche. Ma quella che credo sia la differenza rilevante è che la musica liturgica del passato non ha mai preteso di essere “popolare”, ma senz’altro era per il popolo. Nasceva come grande arte per essere poi a disposizione di tutti. Bisogna anche fare una osservazione che proviene dalla storia: sappiamo come la causa del movimento ceciliano per la riforma della musica liturgica che influenzerà anche il famoso Motu Proprio di san Pio X sarà il tipo di musica che si sentiva nelle chiese nel XIX secolo, pesantemente influenzata dalla musica operistica. Ma, e questo non si dice spesso, quello era veramente un esempio riuscito di inculturazione. La musica operistica nel XIX secolo era la musica di tutti, poveri e ricchi, permeava il tessuto sociale e culturale. Quindi, prendendo la maniera in cui taluni oggi intendono l’inculturazione, essa doveva essere accettata con tutti gli onori. Ma, pur essendo a volte di fattura tecnica pregiata ed amata da larghi strati del popolo e del clero, non fu poi accettata perchè non si conformava ad alcuni canoni che la musica liturgica dovrebbe possedere e su cui si potrà tornare in seguito. Quindi, questo repertorio fu sostituito da un altro, poco a poco, che si riteneva più consono all’azione liturgica. Sempre in Varietates Legitimae, al punto 19, si chiede che le culture devono essere purificate e santificate nel momento di incontro con la liturgia. Non si prende tutto quello che capita. San Paolo diceva di vagliare tutto e trattenere ciò che è buono, non buttarsi nelle braccia delle mutevolezze umane.
Un terzo errore comune conseguente al secondo è che si fa intendere che tutto debba sempre partire da una supposta base. Ma così non è nel mondo reale. Se si pensa alla rivoluzione informatica, ci si accorge che c’è sempre una elite che in un certo senso orienta e ispira la base. Questa elite comprende i geni che hanno rivoluzionato il modo in cui comunichiamo. Essi orientano la rivoluzione informatica anche aspettandosi possibili insuccessi e fallimenti. Ma la loro creatività e perizia permette l’avanzamento enorme che stiamo vivendo. Lo stesso è per la musica liturgica: l’“elite”, formata dai professionisti, lavorava per il bene di tutti, al servizio di tutti. Invece si è pensato che bisognava eliminare questo elemento intermedio, che una sana inculturazione significasse de-professionalizzare il musicista di chiesa. Doveva essere tutto frutto dello spontaneismo. Ma ricordiamo che queste elite, come del resto quelle informatiche, erano estremamente democratiche. Chiunque poteva farne parte, anche dagli strati più umili del popolo, se possedeva la volontà di applicarsi nello studio e nella pratica musicale. Anche oggi, quando si parla di inculturazione nel campo della liturgia e della musica, si tende a pensare che musica del popolo significa musica che il popolo ascolta. Ma i due concetti possono essere ben diversi. I miei studenti cinesi sono familarissimi con il pop e rap americano ma lo sono pochissimo con la loro cultura musicale di origine. Cosa si inculturerà?
Io fortemente credo che tutti e tre i punti esposti sopra siano stati un travisamento grossolano delle istanze del movimento liturgico. L’inculturazione si intendeva come momento nascente, non come apocalisse di ciò da cui proveniamo. L’inculturazione era impregnarsi nuovamente della tradizione per nuove primavere di fede, non uscire nella notte gelida dell’ignoto ad ogni costo. Quello che i padri ci hanno lasciato non dovrebbe essere vissuto come un peso, ma come una opportunità. Il passato è come il chicco di grano che momentaneamente sparisce per riapparire in nuove creazioni, mutato ma sempre se stesso.

(Fonte: Aurelio Porfiri, Zenit.org, 3 novembre 2010)